A cura della Redazione
Unimpietosa analisi del degrado che caratterizza gli Scavi di Oplonti. Questa volta, le critiche sono racchiuse in un articolo pubblicato sulledizone del Corriere della Sera del 18 aprile 2012 (pag. 29), uno dei più importanti quotidiani italiani, a firma di Gian Antonio Stella, editorialista, giornalista ed autore, tra gli altri, del libro La Casta, scritto con Sergio Rizzo. Perfino in prima pagina cè un richiamo alla notizia. Torre Annunziata assurge, così, alla cronaca nazionale e, purtroppo, limmagine che ne viene fuori non è delle migliori. «Riuscite a immaginare cosa farebbero gli americani o i francesi se avessero la fortuna di avere loro questo inestimabile tesoro che è la Villa di Poppea? - scrive Stella -. Vedreste unarea di rispetto tuttintorno, parcheggi, visitor center, una struttura multimediale come anticamera per introdurre gli ospiti a capire quanto si aimportante ciò che stanno per vedere a partire dalla stupefacente parete coi due pavoni (pavoni che avrebbero fatto appunto attribuire la villa allimperatrice) dove si vede una prospettiva studiata sui libri di scuola di tutto il mondo. E poi - prosegue il giornalista - ristoranti, caffè, bookshop e un museo coi reperti più belli e su tutti i meravigliosi Ori di Oplontis trovati nel 1984 nella villa di Lucius Crassius, che sta a poche decine di metri, spersa ed umiliata come la residenza più famosa dentro una casbah sgangherata di orrende palazzine tirate su per mano di geometri e architetti dementi del dio stesso della bruttezza». Stella sottolinea poi come qui a Torre Annunziata cè «zero, meno di zero. Non cè una zona di rispetto, un cartello stradale che aiuti a non perdersi nel casino di una viabilità delirante, non cè un visitor center, non cè un parcheggio, non cè un bookshop e manco un baracchino, una gelateria, un bar... Niente di niente».
Stella scrive come il passato glorioso della nostra terra sia ormai un flebile e sbiadito ricordo. «Tutti a fare la lagna: Potessemo campa solo e turismo!. E tutti a ricordare i tempi belli quando la città si chiamava Gioacchinopoli in onore di Gioacchino Murat... E tutti a citare Wolfgang Goethe: Pranzammo a Torre Annunziata con la tavola disposta proprio in riva al mare. Tutti coloro erano felici dabitare in quei luoghi... A me basta che quellimmagine rimanga nel mio spirito».
Poi, limmagine di Torre Annunziata perennemente associata alla camorra: «Adesso - scrive ancora Stella - qui sono felici di vivere solo i camorristi che arricchiscono, spacciano e ammazzano la gente intorno ai clan degli Aquino-Annunziata, dei Gallo, dei Vangone, dei Gionta... Sono così forti i camorristi, in questa città che visto chiudere 93 dei 94 pastifici e le fabbriche siderurgiche e lo Spolettificio, che ormai, dopo avere ingoiato parte della vastissima Villa di Poppea, è ridotto a uno stipendificio per meno di duecento dipendenti assistiti in uninterminabile agonia, da permettersi tutto». Non mancano, nellarticolo di Stella, riferimenti alla strage di SantAlessandro e a Fortapàsc, toponimo ormai consueto per definire Torre Annunziata, soprattutto dopo il film di Marco Risi.
Alla fine dellarticolo Stella, in riferimento agli Scavi di Oplontis, scrive che «un Paese serio si precipiterebbe a mettere in salvo tanta bellezza. E tenterebbe di rimediare al disastro fatto anni fa consentendo a queste palazzine bruttissime di assediare e quasi strangolare la residenza imperiale. LItalia no. E anche se qualche boccone dei nuovi finanziamenti per Pompei pioverà anche qui, manca del tutto, spiega Antonio Iralndo, presidente dellOsservatorio Archeologico, un progetto vero, di respiro, ambizioso».
E, infine, la laconica e triste conclusione. «Sapete quanti custodi e addetti vari lavorano alla Villa? Trentotto. Sapete quanti visitatori paganti hanno comprato il biglietto nel 2011? Tenetevi forte: 10.125. Ventisette al giorno».
Per lennesima volta limmagine di Torre Annunziata viene fatta a pezzi. Fare del vittimismo non giova alla città e ai suoi abitanti. Se ci vedono così «dallesterno», avremo anche noi torresi le nostre colpe.
DOMENICO GAGLIARDI