A cura della Redazione
Si possono impartire lezioni anche a 13 anni. Aveva quelletà Enrico Prisco quando mostrò la sua vocazione da maestro di vita. Insegnò a tutti noi, suoi coetanei, che lamicizia è un sentimento che deve avere uno sviluppo verticale, non orizzontale. Bisognava aprirsi a tutti, chiudersi in quei recinti perbenistici come imponevano le convenzioni dellepoca avrebbe reso tutti noi dei ragazzi perfettini, ma disperatamente aridi. La teoria (giustissima) laveva elaborata sul campo: la sua famiglia avvocati da generazioni viveva nel cuore di Torre Annunziata, via Parini, luogo dove lisolamento non sarebbe stato mai possibile; aveva frequentato le medie alla Manzoni, altro esempio positivo di integrazione. Seguire Enrico fu la cosa più sensata che avremmo mai potuto fare: aveva modi già da adulto, a lui piaceva anche vestire da adulto, ma il suo pensiero era estremamente pratico e soprattutto moderno. Aveva avuto ottimi esempi in famiglia: il genio da istrione di don Peppino, uno che la toga (e la foga) da penalista non la toglieva neppure quando cera da arringare una folla di tifosi delusi; la serenità rassicurante di mamma Rachele; linarrivabile profondità di pensiero di Salvatore, il fratello professore. Ma la strada era stato il suo laboratorio; lì aveva trovato amici insospettabili, lì aveva scoperto il suo vero spirito. Era felice quando poteva aiutare qualcuno, poteva ricomporre un litigio, poteva intervenire per ricostruire un rapporto. Poteva, insomma, appagare il suo bisogno di trasmettere la propria generosità. Così la scelta di diventare medico arrivò quasi naturale, quella di dedicarsi ai più piccoli linevitabile evoluzione che ne ha conservato la spontaneità, fino allimprovvisa fine della storia che lascia Giuseppe e Rachele senza più un papà, chi lo ha amato con discrezione senza un compagno, Salvatore senza unancora e chiunque labbia conosciuto (anche solo per caso) senza un amico sul quale tutti erano certi di poter contare. Per sempre.
MASSIMO CORCIONE