Torre Annunziata vanta tantissime eccellenze in vari campi: dalla cultura allo sport, dal giornalismo alla politica, dall'istruzione al sindacato. Tra queste eccellenze oggi ne possiamo contare una anche in campo medico: è la dottoressa Loredana Tibullo.

Figlia di Guido, preside del Liceo classico “Benedetto Croce” di Torre Annunziata, all’età di 46 anni è stata chiamata a dirigere l’Unità Operativa Complessa Medicina Interna – dell’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta.

Torrese doc, nell’anno 2000, non ancora venticinquenne, si laurea con 110 e lode, plauso e dignità di stampa alla Seconda Università degli Studi di Napoli. Nel 2005 si specializza in Medicina Interna.

Ha prestato servizio presso gli ospedali di Cesena, Benevento, Napoli, Aversa, Avellino e, da qualche mese, a Caserta con il nuovo incarico di primario.

I suoi genitori, Guido e Giulia, abitano a Torre Annunziata, dove Loredana è cresciuta e ha studiato. Suo marito, Nicola Vargas, è primario presso l’ospedale Moscati di Avellino.

La dottoressa Tibullo è stata in prima linea nell’assistenza ai malati Covid presso l’Unità Operativa Complessa – Medicina Interna – dell’Ospedale Moscati di Avellino, trasformata parzialmente per l’emergenza pandemia. 

Conosco Loredana da tantissimi anni, quando ancora era studentessa. Per me è stato un piacere, oltre che un onore, intrattenermi con lei per parlare di un argomento che purtroppo è ancora di attualità: il Covid. L'intervista che segue risale al periodo in cui lei prestava servizio presso l'ospedale Moscati di Avellino. 

Dottoressa Tibullo, la pandemia da Covid, anche se meno pericolosa di qualche anno fa, continua a contagiare giovani e meno giovani. Ci puoi dire che tipo di danni il Covid arreca ai polmoni?

“Il Covid può causare una polmonite bilaterale ed assumere forme lieve ma anche forme estremamente severe, che potranno svilupparsi tra le settima e la decima giornata dall’infezione. La maggior parte dei pazienti, infatti, arriva in ospedale con un’insufficienza respiratoria proprio durante questo lasso di tempo”.

Come si diagnostica l’insufficienza respiratoria, attraverso quali esami?

“Innanzitutto l’esame clinico, che noi internisti chiamiamo la madre di tutti gli esami. Poi l’emogasanalisi, dove andiamo a ricercare l’ossigeno e l’anidride carbonica presenti nel sangue. Ancora la spirometria, anche se questo tipo di esame è per le forme croniche; la tac toracica ad alta risoluzione; e, sempre più importante negli ultimi anni, l’ecografia polmonare, esame non costoso, che non espone alle radiazioni il paziente e che può essere eseguito a letto dell’ammalato”.

In questi ultimi anni si è sentito spesso parlare del saturimetro. I valori di questo esame possono già dare un segnale di insufficienza respiratoria?

“Certo, oramai è diventato uno strumento comune, presente quasi in tutte le case. Esso ci permette, in maniera non invasiva, applicandolo ad un dito, di avere una valutazione della saturazione, ossia dell’ossigeno presente nel sangue, per dirla in maniera semplice. Per un soggetto sano, la saturazione deve avere un valore superiore al 95 per cento, anche se per gli anziani può essere anche leggermente inferiore. Tuttavia questo strumento può portare ad alterazioni dei valori in determinate condizioni: ad esempio quando sulle unghie è presente uno smalto permanente, oppure quando si è in presenza di aritmia o di pressione bassa. Se il valore del saturimetro scende al di sotto del 90 per cento scatta l’allarme per insufficienza respiratoria. Se scende al di sotto di 85, allora interveniamo con l’ossigeno-terapia. Per i malati che già hanno un’insufficienza respiratoria cronica, come ad esempio i fumatori, cerchiamo di riportare i valori dell’ossigenazione tra 88 e 92 per cento.

In caso di insufficienza respiratoria, come si interviene?

“Dopo il trattamento dell’ossigeno-terapia, inizialmente a bassi flussi, si passa all’ossigeno-terapia a più alti flussi con delle cannule nasali, fino ad arrivare alla ventilazione meccanica non invasiva. Usiamo termini semplici. Non invasiva significa che il paziente partecipa all’atto respiratorio. Viene collegato ad una macchina, il ventilatore, attraverso delle maschere, che possono essere totali, in quanto coprono tutto il volto, oppure parziali, solo naso e bocca. Queste maschere sono collegate ad un generatore di pressione che emette ossigeno ed aiuta il paziente a respirare. Quando ciò non è sufficiente, passiamo alla ventilazione meccanica non invasiva, con l’emissione di pressione di supporto proprio perché riduce il lavoro dei nostri muscoli”.

Perché poi taluni pazienti si aggravano ulteriormente?

“Va detto che ci sono individui più a rischio di altri. Ad esempio gli uomini più delle donne, e gli obesi.  Ma va sottolineato anche che il decorso della polmonite è imprevedibile, con il coinvolgimento multisistemico. I pazienti affetti da Covid vanno incontro, più degli altri, ad eventi trombotici importanti, tra cui embolie polmonari, trombosi venose e infarti. Se diagnosticati in tempo, possiamo salvare la vita di questi nostri pazienti. Oramai è previsto che quelli con insufficienza respiratoria sottoposti ad ossigeno-terapia vanno trattati con terapia anticoagulante proprio per ridurre questi eventi”.

Un’ultima domanda. Che cosa ti hanno insegnato questi mesi di emergenza?

“Sono stati mesi di una meravigliosa, sebbene tristissima esperienza lavorativa. Triste perché ho visto pazienti che sono stati intubati ed alcuni di questi sono anche morti. Meravigliosa perché è un’esperienza professionale unica. Ci siamo trovati purtroppo di fronte ad una patologia che nessuno conosceva, che non sapevamo come fronteggiare. Eravamo preparati a trattare le polmoniti, le insufficienze respiratorie ma non questa nuova emergenza.

Oltre a questo aspetto professionale, vi è però l’aspetto umano unico, perché abbiamo cercato di aiutare questi pazienti nella loro solitudine, nel loro isolamento, aiutandoli nelle loro piccole cose quotidiane, come a fare videochiamate con i loro familiari che non vedevano da tempo. Loro sentivano le nostre voci, ma vedevano solo i nostro occhi. Quando poi li abbiamo dimessi siamo stati ben felici di farci finalmente vedere e salutarli con affetto”.