L’emergenza coronavirus ci porta a raccontare tante storie. Di drammi familiari, di persone anziane in solitudine, di sofferenza e di dolore. Ma anche di solidarietà, di abnegazione verso il prossimo, di sacrifici e di “eroi”.
E partendo proprio da questi ultimi, medici ed infermieri in trincea per salvare quante più vite umane possibili, prendo spunto per raccontare la storia di Sebastian Gallo, 28 anni, infermiere professionale di Torre Annunziata, da due anni in servizio presso la sala operatoria della Clinica Grimaldi di San Giorgio a Cremano. Un racconto attraverso le parole dello stesso protagonistra.
«Il 10 marzo scorso – inizia Sebastian – ricevo una mail da parte dell’ospedale Cotugno di Napoli. A causa dell’emergenza coronavirus, hanno bisogno, per un anno, di personale infermieristico. Non sono il solo ad essere chiamato. Insieme a me vengono interpellati altri 150 infermieri inseriti in una graduatoria di un Avviso pubblico dell’ospedale Moscati. Devo decidere in fretta perché il giorno dopo avrei dovuto già prendere servizio. Ho un attimo di sbandamento. In fin dei conti un lavoro ce l’ho già, pur se a tempo determinato, perché allora accettare una proposta così rischiosa e per di più contro un nemico subdolo? Ci penso su per qualche minuto, ma i dubbi si dissolvono presto. Accetto, non posso tirarmi indietro proprio nel momento di maggior bisogno».
Sebastian appartiene ad una famiglia di infermieri. Lo sono il papà Peppe, la mamma Pina, il fratello più piccolo Attilio (anche lui assunto in questi giorni in un ospedale Covid di Firenze), lo zio Aniello, coordinatore infermiere presso il Covid-Hospital di Boscotrecase.
«Il giorno 11 marzo – continua Sebastian – prendo servizio al Cotugno. Partecipo ad un corso di formazione della durata di 4 giorni relativo alla vestizione e a come affrontare le emergenze. Imparo ad indossare tuta, calzari, mascherina, occhiali, doppio paio di guanti. All’interno della tuta si suda molto e gli occhiali si appannano in continuazione, ma ho dovuto abituarmi. Finito il corso vengo assegnato al Repato “G”. Qui l'aria circolante all'interno è a pressione negativa per proteggere gli operatori sanitari. Ci sono venti camere munite di tutti i comfort (bagno, tv, libri), ciascuna occupata da un solo paziente. Sono quelli estubati che devono seguire un nuovo percorso terapeutico di due, tre settimane, fino alla guarigione completa».
Lo interrompo, gli chiedo di parlarmi dei pazienti, dei loro stati d’animo, delle loro paure.
«Ho provato un’emozione indescrivibile – continua Sebastian - quando è stata dimessa una ragazza di 25 anni ricoverata in gravissime condizioni”. Ma non riesce ad andare oltre, la sua voce al telefono si interrompe rotta dal pianto. Poi riprende: “Ci siamo tutti commossi, noi e lei. E’ stato un bellissimo momento, quell'immagine rimarrà indelebile nella mia mente. I pazienti cercano contatti umani, vogliono sapere cosa succede fuori. Noi non potremmo intrattenerci perché dobbiamo stare il meno possibile a contatto con loro. Ma come si fa a dirgli di no? Ci sediamo per qualche minuto, loro vedono solo i nostri occhi. Li ascoltiamo, li rassicuriamo, scambiamo qualche parola e poi ci allontaniamo. Sono persone per lo più anziane e fanno tanta tenerezza. Ieri una donna mi ha detto: “Siete i nostri eroi”. Le ho risposto che gli eroi sono loro perché soffrono senza lamentarsi, noi cerchiamo solo di fare al meglio il nostro lavoro. In ospedale - conclude Sebastian - siamo una vera famiglia e quando vado via, non vedo l'ora di ritornarci per assistere i miei pazienti».
La nostra chiacchierata finisce qui. Spesso non abbiamo una grande considerazione dei nostri giovani, eppure come Sebastian, responsabile e diligente, ce ne sono tanti altri a cui bisognerebbe solo dare l’occasione giusta per dimostrare il loro vero valore.