In questi mesi che precedono le elezioni politiche del 4 marzo prossimo i partiti sono alla disperata ricerca di ricette economiche per attirare a sé quanti più elettori possibili. Ci sono proposte roboanti, quali il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle e la flat tax (in italiano tassa piatta) di Silvio Berlusconi, e quelle meno dispendiose, quali l’esenzione del canone Rai di Matteo Renzi o la cancellazione delle tasse universitarie di Pietro Grasso.
Sul reddito di cittadinanza si è scritto di tutto e di più. Per i sostenitori di questa misura economica è uno strumento di equità sociale, per i detrattori, invece, una proposta populista, insostenibile, irrealizzabile.
Poco, invece, si è detto sulla flat tax, ossia l’applicazione di un’unica aliquota Irpef al 23 per cento sul reddito degli italiani. Berlusconi ci aveva già tentato nel lontano 2003 con l’allora ministro Tremonti (due sole aliquote) ma il tentativo naufragò.
Oggi le aliquote sono 5, più la no tax per i redditi fino a 8.174 euro. Si parte con una fascia di reddito fino 15 mila euro, su cui incide una tassazione del 23 per cento; da 15.001 a 28 mila euro, l’aliquota passa al 27 per cento; da 28.001 a 55 mila euro, al 38 per cento; da 55.001 a 75 mila euro, al 41 per cento; oltre 75 mila euro, al 43 per cento. E’, questa, la cosiddetta tassazione progressiva, garantita dall’art. 53 della Costituzione secondo cui “l’imposta che i cittadini sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica”. La flat tax, invece, deroga a tale principio e privilegia i redditi medio-alti, I suoi sostenitori affermano che con con un'unica aliquota si evaderebbe molto di meno e si incentiverebbero i ricchi stranieri a trasferire la residenza fiscale in Italia.
Per meglio far capire come funzione, e senza entrare nel merito della sostenibilità della proposta (secondo Berlusconi occorrono 40 miliardi di euro, secondo altri per lo meno il doppio), farò un esempio.
Chi oggi guadagna 25 mila euro lordi all’anno paga una ritenuta Irpef di 6.150 euro. Con la flat tax ne pagherebbe 5.750 euro. Un risparmio annuo, quindi, di 400 euro che equivarrebbe ad un “aumento” mensile in busta paga, rispetto alla tassazione vigente, di 33 euro.
Prendiamo in esame, ora, chi ha un reddito lordo di 50 mila euro annuo. Con la tassazione vigente versa un’Irpef pari a 15.320 euro all’anno, mentre con la flat tax l’Irpef scenderebbe a 11.500 euro. Un risparmio di 3.820 euro all’anno, che equivarrebbe ad un “aumento” in busta paga di 318 euro mensili.
In conclusione, con un reddito lordo di 25 mila euro ci troveremmo 33 euro in più in busta paga, mentre raddoppiando il reddito, 50 mila euro, l’aumento sarebbe quasi decuplicato (318 euro). E più aumenta il reddito più aumenta in modo esponenziale il risparmio Irpef.
Volendo fare un po’ di conti, prendiamo il caso dell’ex premier Silvio Berlusconi. Nel 2016 ha dichiarato un reddito pari a 4.5 milioni di euro, versando, con la tassazione attuale, un imposta pari a 1 milione e 928 mila euro. Con l’introduzione della flat tax, invece, verserebbe un’imposta di 1 milione e 35 mila euro, con un risparmio annuo pari a 893 mila euro.
Ora se è vero che una riduzione della tassazione sui redditi sarebbe auspicabile (lo stesso governo Gentiloni si era prefissato questo obiettivo per il 2018, poi rinviato), è altrettanto vero, però, che a beneficiarne dovrebbero essere soprattutto i redditi medio-bassi anziché quelli alti.
Ma in campagna elettorale le proposte, realizzabili o meno, fioccano a gò gò, tanto più che la nuova legge elettorale difficilmente permetterà ad una singola coalizione o partito di raggiungere una maggioranza per governare. Dopo, se si riuscirà a costruire un governo di mediazione, si potrà sempre dire che non si hanno i numeri per portare avanti le proprie istanze.