A cura della Redazione
Sarà pure una mia fissazione, ma ho l’impressione che il caso Torre Annunziata sia costantemente sottovalutato. Non riesco a cogliere differenze con Casal di Principe, non si può ridurre tutto a una mera contabilità di vittime. Il grado di invivibilità è lo stesso, anche se noi non abbiamo avuto un Saviano che ha raccontato il nostro dramma, che ha trasferito sulla carta la precarietà delle nostre giornate, che ha reso materia letteraria (oltre che denuncia) l’impossibilità cronica di poter vivere una vita normale. L’invio dei rinforzi per combattere i casalesi dà all’Italia intera l’idea che il male sia solo lì, confinato nella guerra per bande tra i camorristi indigeni e le bande di disperati arrivati da lontano. E invece no, il nemico ha una struttura molto più ramificata, da anni ci stringe alla gola, ci soffoca, ci impedisce ogni forma di reazione, paralizzando spesso anche le nostre menti, bloccate dalla paura, dal terrore. Possibile che il grido di dolore non arrivi a Roma, che nessuno ascolti chi non ce la fa neppure a sopravvivere? Più volte ho detto che non ho nessuna certezza che basti la presenza dell’esercito per risolvere il problema, ma lo Stato un segnale di presenza deve pur darlo, altrimenti certifica la resa, la consegna del territorio a chi già spietatamente lo gestisce per traffici che danno ricchezza (illecita) a pochi e impediscono lo sviluppo di tutti.
E’ triste dover contendere la speranza ad altri cittadini come noi, oppressi come noi, spesso anche complici inconsapevoli come capita quando non senti la tutela che costituzionalmente ti spetta. Eppure le denunce continuano a partire: dal sindaco, dai magistrati della Procura, dai rappresentanti delle forze dell’ordine. Si sentono tutti, ci sentiamo tutti, abbandonati a un destino che non può essere irreversibile. Quello straordinario strumento che si sta rivelando il nostro Muro, poi, segna la febbre del malessere. E’ altissima, soprattutto tra i più giovani, eternamente divisi tra la voglia di fuggire e la tentazione di restare per cambiare qualcosa. Nulla di nuovo: erano gli stessi anche i discorsi della generazione di mio padre, ragazzi usciti dalla seconda guerra mondiale che non riuscivano a intravedere un futuro a Torre. La distruzione provocata dalle bombe e l’azzeramento della precedente economia erano le ragioni di quel senso di precarietà ; altre crisi si sono succedute nel tempo e altre fughe hanno portato lontano altri giovani. Ma non può essere sempre così: il rischio di trasformare Torre in una riserva di persone inattive e di oppressori malavitosi è insopportabile. Non possiamo aspettare un nuovo Saviano per essere liberati.
MASSIMO CORCIONE