Provo a parlare del libro, Mala fede, e dell’autore proponendo gli stilemi della poetica del genere, le caratteristiche compositive e narratologiche; in breve lo spirito, la sostanza profonda.
Giovanni Taranto l’ho conosciuto come cronista e l’ho ritrovato scrittore. Il capitano Mariani invece l’ho conosciuto ancora cadetto. Perché ho letto tutti e tre i libri della saga del capitano. Anzi sono stato tra i primi a leggere il primo “La fiamma spezzata”. Poi il numero di noi lettori è diventato legione. E legione è una parola chiave del mio personale word cloud, il primo indizio. Anche se la versione originale è “il mio nome è legione”. A indicare i molteplici demoni che possiedono un uomo (a Gerasa forse l’omonima città, la Pompei dell’Asia, attualmente nel nord della Giordania) di cui parlano i tre vangeli sinottici.
In particolare, la citazione del vangelo di Luca compare anche come esergo della prima edizione del 1873 dei “I dèmoni” (o “I demòni” o “Gli indemoniati”, “Gli ossessi”) di Dostoevskij che parla di un gruppo di terroristi, o meglio di una vera e propria setta. Tutto a confermare il valore di indizio della parola chiave legione.
Ma legione è anche un’unità dell’esercito romano responsabile dell’arresto e dell’uccisione di Cristo, Cristo che rinunciò ad opporre “le dieci legioni di angeli” di cui poteva disporre nel racconto di Matteo per compiere il destino del martirio in salvezza degli uomini. Ma la colpa dei Romani restava. Infatti, qualche decennio dopo il nome di Nerone, già stigmatizzato (ufficialmente da Papa Pasquale II citato opportunamente a metà del libro) in ambito cristiano come anticristo, produsse nella gematria ebraica, in combinazione con Cesare, sinonimo di imperator, il Numero della Bestia, in quanto sommando i numeri dei due nomi, secondo la procedura della gematria che associa numeri a lettere dell’alfabeto ebraico, si otteneva 666. E Nerone è un’altra parola chiave. Un altro indizio. Forse decisivo.
Ma perché vi raccontò ciò. Ma è ovvio per destare curiosità e “indurvi” a leggere il libro. Che è un vero libro. Che poi sia un giallo vulcanico, un noir vesuviano o un carabinieresco (neologismo che non si può sentire, in verità) sarà lui, Giovanni, a dircelo. Di certo è una storia, congegnata con luminosa ed intrigante precisione, con un enigma da svelare, sciogliere e soprattutto comprendere. Quindi destare curiosità, ma senza svelare nulla; dare qualche indizio per riproporne i meccanismi e lo statuto del giallo. Non mi posso certo limitare a dire solo: “È bello!”. Devo motivarlo il giudizio ma, attenzione, senza rivelazioni inopportune. E qui entriamo nella poetica del giallo e nella natura e psiche del giallista. Che è un artefice divino, un pollicino al contrario, nel senso che dissemina sì briciole di sapere, in forma di indizi che il lettore deve cogliere, ma con discrezione e se questi non ci riesce, tanto meglio. È un musico che suona un canone inverso. Ha tutto chiaro in testa, ma deve stare attento a disseminarli i bagliori, i baluginii, in una parola, ripeto, gli indizi. Perciò sarebbe interessante seguire, magari come in un laboratorio, l’itinerario compositivo. E questo se vuole lo può fare solo lui, lo scrittore. Anche se un’idea me la sono fatta. O, meglio, gliel’ho assegnata.
Con tale azzardo è sortito il paradosso di scrittore e lettore che si incontrano a metà strada. Strada che il primo, lo scrittore, indica, ma che deve rendere, come dire, con ardito ossimoro, piacevolmente impervia; strada che il secondo, il lettore, deve percorrere stando attento a dove mettere i piedi, ma anche a godere del paesaggio. Così il primo deve lasciar cadere le mollichine, e pur impedendo l’intervento degli uccelli, deve dissimularle.
Il lettore dovrebbe individuarle ma con equilibrata misura, perché se lo fa completamente smette non solo di leggere ma si sostituisce all’artefice scrittore, ne annulla il lavoro e forse la sua stessa ragion d’essere e di certo non ne compra più i libri. Invece, quegli indizi che pure ci sono tanto più ci sfuggono quanto più la scrittura - il paesaggio della metafora – è gradevole, frutto di un dettato fluido, scorrevole, preciso, puntuale, forse con qualche eccessiva concessione al descrittivismo esplicativo, ma sempre avvolgente. Con Giovanni Taranto ciò accade. Compie il miracolo in noi della lettura attenta ma agevole, favorita anzi stimolata da un meccanismo preciso. In particolare nella gestione della molteplicità dei piani narrativi e dei livelli linguistici. Eccellente, al riguardo, la caratterizzazione romanesca del capitano feconda di sviluppi coloristici anche in forma di contrappunto musicale, in dialogo, come si usa dire nel linguaggio della critica d’arte, con la collocazione vesuviana, con la necessità, moltiplicata dall’inserimento del marchigiano Emidio Cingolani, carabiniere dall’aulico idioma, di spiegare modi di dire caratteristici della nostra lingua/dialetto. Non mi cimento nella recente polemica, tanto più che mi annovero tra quanti la/lo considerano qualcosa di singolarmente diverso: una sorta di “codice astratto di un’anima densa”.
In conclusione e in sintesi, la scrittura di Giovanni Taranto è un meccanismo perfetto come un orologio. Anzi come un rilorgio. Tanti rilorgi. Altra e ultima parola chiave. Altro indizio. E qui mi fermo. Sperando di non avere spoilerato troppo. Del resto chi ha letto il libro ha capito. Chi lo leggerà capirà.
E mi auguro lo facciano in tanti. Sarebbe il riscontro della non totale inutilità del mio intervento. Il riconoscimento di un senso alle parole che lo hanno costituito.
P.S. Un ringraziamento particolare a Giovanni per tutti quei segni comuni – respiro e memoria della nostra storia cittadina – che dissemina nei suoi libri. Dal giornalista Gianluigi Alfano ai rintocchi della chiesa di San Francesco, alle tante fedeli descrizioni di luoghi degli occhi e dell’anima. Anche solo coglierne qualcuno contribuisce a ravvivare quel senso di comunità condivisa che la scrittura riesce a destare nella sua duplice, ma non opposta quanto complementare dimensione di lettura/percezione individuale e intima, e memoria emotiva che ne scaturisce, universale e comune. Affratellante.
Felicio Izzo, presidente A.P.L.I.
(Nella foto, la copertina del libro e l'autore, Giovanni Taranto)