L’Italia culla delle belle arti è “intessuta”, lungo tutta la sua superficie da musei, gallerie d’arte, palazzi e chiese ma in quanti di questi luoghi ci è capitato di leggere, sulla targhetta identificativa di un’opera un nome femminile?
Una delle poche è Artemisia Gentileschi, nata a Roma 427 anni fa, l’8 luglio del 1593, aderente della scuola caravaggesca. Donna coraggiosa per le sue scelte in campo artistico e umano. In tempi in cui alle donne era bandito l’accesso agli atelier, si allontanò totalmente dalle artiste che fino a quel momento erano meramente relegate a dipingere, come soggetti dei propri lavori, nature morte, paesaggi e ritratti. La Gentileschi scavalcò il confine, affrontò la pittura “alta”, quella dei soggetti sacri e storici. Abbracciando totalmente lo stile del Caravaggio nella concezione della scena, nei contrasti che descrivevano forme e colori e nel prediligere piani ravvicinati che coinvolgevano “drammaticamente” lo spettatore.
Suo padre Orazio, pittore ed amico del Caravaggio, la istruì al mondo pittorico. Nel 1612 realizzò “Giuditta che decapita Oloferne”, divenuto uno dei più noti della sua produzione, conservato nel “Museo nazionale di Capodimonte” a Napoli. Opera rilevante in quanto realizzata a fronte di una vicenda personale che le segnò la vita ed in parte anche la sua fama. Nel 1611 fu stuprata dal suo maestro Agostino Tassi. La Gentileschi decise di denunciarlo, episodio raro all’epoca, simbolo questo della sua forza combattiva. Durante il processo Artemisia venne sottoposta a interrogatori sotto tortura da parte delle autorità giudiziarie per verificare la veridicità delle sue accuse, subì un supplizio progettato per i pittori, i sibilli, che consisteva nel fasciare i pollici con delle funi fino a farli sanguinare e stritolare le falangi. Pur rischiando la perdita delle dita, oro sacro per la sua arte, non ritrattò la sua deposizione.
Artemisia, per questi ed altri motivi, è divenuta il simbolo del femminismo e della ribellione all’egemonia maschile. Purtroppo per lungo tempo, quest’episodio ha deviato l’attenzione dal suo essere artista.
Dopo il processo che vide il Tassi condannato a cinque anni di reclusione, Artemisia fu costretta a sposare il pittore fiorentino, Pierantonio Stiattesi. Trasferitasi a Firenze fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno. Nel capoluogo toscano conobbe importanti personaggi dell’epoca, come Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il Giovane, che le commissionò alcuni dipinti. Di questo periodo fanno parte la “Conversione della Maddalena” e la “Giuditta con la sua ancella” di Palazzo Pitti ed una seconda versione della “Giuditta che decapita Oloferne”, conservata agli Uffizi. Lasciò il marito e si trasferì con le figlie prima a Roma e poi a Venezia, senza riscuotere grandi successi. In ultimo si spostò a Napoli, dove visse fino alla fine dei suoi giorni. La scelta della città partenopea fu valutata in base alle sue caratteristiche. Napoli, aveva visto la presenza di eminenti figure come Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Giovan Battista Marino. Nel 1630 era capitale del Viceregno spagnolo e la seconda metropoli europea dopo Parigi, per popolazione. Città fiorente di cantieri, di arte, ricca di possibilità lavorative.
E’ nel periodo napoletano che Artemisia si ritrova a dipingere per la prima volta per una chiesa. Sono di questo periodo le tre tele che dipinse per la Cattedrale di Pozzuoli: “San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli”, “L’Adorazione dei Magi” e “Santi Procolo e Nicea”. Lasciò Napoli per un breve periodo per recarsi in Inghilterra, per assistere il padre, fino alla sua morte, diventato pittore presso la corte di Carlo I.
Artemisia Gentileschi morì nel 1653 e fu seppellita presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, nell’antico Rione Carità, ma la sua lapide con la scritta “Heic Artemisia” andò perduta con la demolizione della chiesa negli anni’50 che vide la ricostruzione della stessa nel quartiere del Vomero.
Il coraggio ha fatto di Artemisia un’eroina femminista ante litteram. L’interesse verso questa grande artista si è ridestato nel 1916, grazie ad un articolo di Roberto Longhi intitolato Gentileschi padre e figlia. Longhi emancipò l’artista dal pregiudizio sessista che l’aveva da sempre accompagnata, riuscendo a spostare l’attenzione sui suoi meriti artistici e considerandola al pari di alcuni suoi colleghi maschi dell’epoca. Di lei scrisse: <<L'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità. [...] >>
Figura attuale quella della Gentileschi, a difesa della donna, dei pregiudizi e dei suoi diritti combatté strenuamente, utilizzando come armi le proprie qualità artistiche e non solo. Dipinse fino alla fine dimostrando che cambiando una vocale (pittore-pittora) il risultato non cambia.
Pian piano che l’emergenza COVID-19 sta lasciando lo spazio alla ripresa delle attività quotidiane, nel pieno rispetto delle norme in vigore, si riapre la possibilità di riprendere l’esperienza sensoriale del vivere l’arte in presenza. Le opere di Artemisia Gentileschi da poter scoprire e riscoprire nella nostra Regione sono:
- L’Annunciazione, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli;
- Giuditta che decapita Oloferne, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli;
- Sansone e Dalila, Palazzo Zevallos, Napoli;
- San Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli, Cattedrale di Pozzuoli;